I rapporti interpersonali sono spesso complessi. E alle volte il modo di porsi dell’interlocutore è, volontariamente o involontariamente, fastidioso oppure semplicemente poco in linea con la nostra forma mentis.
Anche piccoli dettagli - come le interruzioni durante un discorso, alcune battute sarcastiche, l’isolamento sul bus - possono essere motivo di stress e di nervosismo. Una forma di violenza.
Tecnicamente queste situazioni vengono definite come microaggressioni. E, quando vengono ripetute nel tempo, possono avere un effetto negativo sulla psiche di chi le subisce. Apparentemente innocue, in realtà hanno effetti potenzialmente devastanti.
Questione di percezione
Definire la linea di confine all’interno della quale si collocano le microaggressioni non è immediato. Questo perché dipende dalla percezione e dal grado di sensibilità di chi ne è vittima. Quello che per me potrebbe risultare una sciocchezza, potrebbe essere grave per un’altra persona e viceversa.
A coniare il termine, per primo, è stato Chester Pierce, psichiatra di origine americane. Nel nostro Paese, invece, è un concetto arrivato relativamente da poco.
Ce ne sono di due tipi: aperte e nascoste. Le prime vengono fatte con la consapevolezza di ferire e con la volontà di farlo, le seconde vengono messe in atto senza sapere che tipo di effetto si abbia sull’interlocutore (in maniera inconscia).
Ma non ci si ferma qui, ci sono dei pericoli che non bisogna dimenticare di considerare. Ne sanno qualcosa le minoranze etniche o le persone discriminate per il loro sesso, la loro religione o altro.
Possibili contesti
Lo scopritore delle microaggressioni le ha riconosciute fra gli studenti universitari afroamericani. Nonostante ci siano dei contesti maggiormente vulnerabili, possono coinvolgere chiunque e fanno parte di un fenomeno più ampio che prende il nome di Minority stress.
Si tratta della pressione psicologica subita dai gruppi di minoranze per i più svariati motivi. È il risultato delle disuguaglianze a livello sociale ed economico, è figlia del razzismo, dell’omo e della transfobia, di qualsiasi attacco per il proprio aspetto fisico.
Il risultato, soprattutto in persone colpite con una certa regolarità, può portare all’inadeguatezza a un sentimento di intrusione rispetto ai canoni imposti dalla società. Succede agli stranieri a cui viene chiesto “da dove vieni?”, per esempio.
Anche quando a una donna viene detto “guidi molto bene” si tratta di microaggressioni. Al contrario, lo è la frase “non si vedono tanti infermieri uomini”. Il fatto di sottolineare una particolare capacità di una persona con disabilità lo è altrettanto.
E possibili effetti
Le conseguenze possono essere di diversa entità e dipendono direttamente dalla personalità di colui che è vittima di un attacco quasi sempre sottovalutato. Spesso, lo stesso soggetto viene discriminato per la stessa ragione. A essere presa di mira è una sua determinata caratteristica che diventa oggetto di attenzione o, peggio, di scherno.
Il disagio non è molto intenso, ma nel tempo può aumentare. Si verifica una sorta di accumulo che poi arriva a un punto di rottura. La reazione, allora, può essere spropositata, giudicata eccessiva rispetto all’azione.
Se da un lato c’è il pericolo che le parole ricevute vengano interiorizzate e la persona si convinca della loro veridicità; dall’altro si può avere la percezione di essere vittima di una forma di discriminazione, si provano frustrazione, rabbia, insicurezza costanti. La socialità può esserne colpita: c’è chi decide di ridurla al minimo per non rischiare di essere ferito.
Chi prende coscienza dello stato di microaggressione deve decidere come reagire: se subire, ed evitare lo scontro, o se rispondere sottolineando il proprio stato d’animo. Il pericolo è che l’interlocutore non comprenda e che valuti la reazione esagerata.
Essere recettivi ed empatici
Una prima classificazione, che distingue fra aperta e nascosta, può essere riduttiva. Bisogna infatti focalizzarsi anche sul tipo di accoglimento delle persone oggetto di offesa. Una risposta sbagliata o fuori luogo può essere altrettanto tagliente e dannosa. Fondamentale è imparare ad ascoltare le esigenze altrui, a entrare in empatia con il prossimo.
L’ideale sarebbe migliorarsi, imparando dai propri errori. Riconoscerli è il primo passo per un’inversione di rotta. Trovare, invece, una giustificazione può portare a non individuare il sistema di valori da cui nasce una determinata microaggressione.
Il comportamento migliore
Chi tende a sottovalutare determinati comportamenti all’interno di specifici contesti si basa su una possibile lesione della libertà altrui, su una presunta, eccessiva attenzione a ciò che si dice, come e quando.
L’errore è possibile e umano, ma la differenza la fa la risposta che si dà rispetto alla reazione che arriva dall’interlocutore. Se si capisce di aver creato un disagio, l’importante è saper chiedere scusa.
La vittima di microaggressioni, d’altro canto, è bene che disinneschi il meccanismo con dei “microinterventi”. Alcune risposte hanno il potere di far perdere valore all’aggressione e di far capire all’autore di essere stato inopportuno.
Meglio non mettersi sulla difensiva, dimostrare pazienza e non lasciarsi trasportare dalle emozioni negative. Cerchiamo di ricordare sempre che una vittima può sempre diventare carnefice e viceversa.
Nessuno è esente da errori. Fondamentale è saperli riconoscere e non perseverare. L’aiuto del prossimo, magari con una sensibilità più marcata, può fare la differenza. Ecco, quindi, l’importanza dell’ascolto e dell’essere recettivi e aperti al confronto.