La rape culture è tutta intorno a noi ed è così radicata che spesso non riusciamo neanche a riconoscerla al primo colpo. Dobbiamo soffermarci, scomporre e razionalizzare per capire che certi atteggiamenti convenzionalmente accettati dalla società sono da denunciare.
Se anche tu ti rendi conto che attorno a te ci sono argomentazioni che inneggiano a una cultura di sottomissione della donna, è giunto il momento di leggere questo articolo.
Due parole sulla storia della rape culture
Il concetto sociologico di rape culture è stato introdotto negli anni ’70 dal movimento femminista di seconda ondata e poi ripreso e portato avanti da uomini e donne in tutto il mondo. La prima definizione è stata attribuita a un documentario intitolato Rape culture (1975) in cui Margaret Lazarus descriveva come lo stupro veniva rappresentato nel mondo dello spettacolo. Questo concetto è stato portato avanti a più riprese da tante femministe che misero in evidenza non un fatto eclatante, ma un modo di pensare talmente radicato che tocca decostruirlo per individuarlo ed estirparlo.
La cultura dello stupro non parla necessariamente dell’atto in sé. È un insieme di comportamenti e atteggiamenti talmente radicati nella cultura globale che a volte le donne non si accorgono di subirli. Sono comportamenti astratti che portano a effetti reali sulla vita delle donne, e stanno alla base di ogni lotta femminista e per la parità di genere.
La cultura dello stupro parte da un concetto molto semplice per finire inevitabilmente in un baratro di orrore. Gli abusi verbali e fisici non sono poi così gravi, e se lo sono forse lei se l’è cercata almeno un po’. Ogni elemento di questa frase, avrai notato, sgrava la colpa dell’uomo e la carica sulle spalle di chi l’ha subita. Guarda caso, la donna.
Minimizzare il problema
Si comincia col minimizzare il problema. Tanto per cominciare, se non è stupro, non è neanche reato. E poi dopotutto se non fossi una ragazza carina non ti verrebbero rivolte certe attenzioni. A pensarci bene, hai notato come sei vestita? Probabilmente l’hai provocato tu.
Il paragrafo di cui sopra – che somiglia spaventosamente a certi commenti social lasciati sotto gli articoli su Greta Beccaglia – è un concentrato di argomenti che minimizzano il senso della rape culture. Una solidarietà tra individui che ritengono ogni forma di attenzione sessualizzata come un privilegio di cui la donna dovrebbe andare fiera. Oppure, che dovrebbe accettare stando zitta.
La cultura dello stupro gioca la sua battaglia psicologica sul bisogno di controllare la donna. Cosa fa. Come si comporta. La donna è la pietra incrollabile della famiglia: è la moglie, la mamma. Quando non è tutto questo, però, è un oggetto da guardare con piacere. Questo concetto che, per fortuna, non appartiene a tutti gli uomini, è frutto di secoli di oggettificazione del corpo femminile che hanno normalizzato certi comportamenti e modi di pensare.
Delegittimare per mantenere lo status quo
Senza scomodare il concetto di patriarcato, possiamo comunque affermare che la società è stata guidata, per tanto tempo, dagli uomini. Attraverso le loro parole, i loro pensieri, il loro vissuto, gli uomini determinano la misura in cui uno stupro è avvenuto – o non lo è affatto. La parola dell’uomo – meno emotivo e dunque più autorevole – determina la presenza o l’assenza del reato.
Il perpetratore di una molestia o di uno stupro si difenderà come ogni colpevole preso in castagna, andando a rimescolare le carte in tavola. Il confine tra sesso e violenza si è fatto sempre più confuso nelle menti di chi ha accettato, più o meno volontariamente, la rape culture. Quante volte abbiamo sentito cose tipo: diceva di no ma in realtà era un sì? E qui entrano in ballo fenomeni da far accapponare la pelle come il victim blaming e lo slut shaming.
Il comune pregiudizio
Le argomentazioni dei cultori della rape culture fanno leva su dubbi e pregiudizi in apparenza molto concreti e talvolta perfino logici. Non per questo, però, meno infondati. L’obiettivo è togliere la colpa dalle spalle dell’uomo che, secondo il ragionare comune, a sua volta è una vittima. Vittima del fatto che è troppo giovane, vittima di atteggiamenti tossici da parte delle donne. Derubricare il crimine per renderlo più accettabile agli occhi della società. Immedesimarsi nel carnefice solo perché è uomo, e perché – si sa – le donne sono subdole.
Questa è solo la punta dell’iceberg della cultura dello stupro. Entrare nel dettaglio di ogni sfaccettatura di questo set di comportamenti che la società ha costruito è un viaggio lunghissimo. Possiamo combatterla, però: con il linguaggio che scegliamo di usare, con l’elaborazione di un pensiero autonomo e paritario.