Il danno è permanente e segna la donna per tutta la vita. Non si tratta soltanto – come se non fosse già abbastanza – di violenza fisica: è anche un sopruso verbale e psicologico.
Lo è perché la sterilizzazione viene fatta contro la volontà della persona coinvolta. Si toccano diversi aspetti dell’esistenza, fino a determinare la possibilità di diventare madri.
Con violenza riproduttiva, infatti, si intende l‘impedimento imposto di generare la vita. Si tratta di un fenomeno dai risvolti molteplici e devastanti che meritano di essere approfonditi.
Qualche definizione utile
L’American College of Obstetricians and Gynecologists definisce la sterilizzazione come un “metodo permanente di controllo delle nascite”, ma noi sappiamo che è molto di più. Non si tratta, infatti, soltanto di legare – e chiudere - le tube di Falloppio per impedire che l’ovulo venga fecondato. Non si tratta nemmeno soltanto di procedere un’isterectomia e o di indurre l’aborto. Si tratta di decidere per la donna, di non considerare i suoi desideri e di provocare delle conseguenze psicologiche e sociali che sono difficili – se non impossibili - da superare. A voler parlare senza mezzi termini, così da definire chiaramente il fulcro della questione, è una vera e propria violazione dei diritti umani.
Lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale parla della sterilizzazione forzata come di “un crimine contro l’umanità, perché viola i diritti fondamentali alla riproduzione e alla salute; dall’altro, è un crimine di genere, perché sebbene sia stata spesso imposta sia a uomini che a donne, ha colpito più duramente quest’ultime, soprattutto quelle facenti parte di una minoranza (afroamericane, latine o native)”.
Un genocidio che passa sotto silenzio
In Paesi insospettabili come il Canada e gli Stati Uniti, nel XX secolo, si assistette a un vero e proprio genocidio silenzioso di massa contro le donne indigene. Ancora oggi esistono diverse parti del mondo in cui determinate pratiche sono permesse. Vengono considerate tradizioni legate al passato, nate per via della colonizzazione e della diffusione del movimento eugenetico, che promuovono uno stile di vita anglosassone.
Ad esempio, in Alberta e British Columbia fu promossa una legge sulla sterilizzazione molto gradita a Hitler. “Quello che hanno fatto agli ebrei, lo stavano già facendo agli indiani qui: la rimozione forzata delle persone”: ha dichiarato Juana Majel Dixon, esperta di diritto indigeno e segretaria del Congresso Nazionale degli Indiani d’America. Lei stessa fu vittima di violenza riproduttiva all’età di 16 anni.
E che non è poi così lontano
Queste pratiche, smisero di essere promosse negli anni Settanta. Tuttavia, in quegli anni, negli Usa si registrò una sterilizzazione delle donne indigene fertili fra il 25 e il 50%. In Canada, tra il ‘66 e il ‘76, furono un migliaio quelle sottoposte a questa pratica barbara.
Ma purtroppo non finisce qui. Sono molte, infatti, le donne indigene di quei luoghi che denunciano pressioni psicologiche e sterilizzazioni contro il proprio volere sino al 2018. Soltanto tre anni fa.
Una costrizione che avviene in silenzio, nell’inconsapevolezza dei più, che provoca danni fisici e mentali che non si possono descrivere. In pochi minuti si invade la sfera personale e intima di una persona – che invece dovrebbe essere tutelata da una serie di diritti – e si condiziona la sua vita per sempre.
Alcune testimonianze
Le prime a denunciare pubblicamente la violenza riproduttiva subita sono state Brenda Pelletier e Tracy Bannab. Hanno raccontato di aver ricevuto pressioni in ospedale, subito dopo il parto, per dare il consenso all’intervento. Grazie al loro coraggio, molte altre donne hanno denunciato. La quasi totalità sono indigene costrette alla sterilizzazione, spesso vittime inconsapevoli. È successo anche a una ventinovenne nel 2001. Dopo aver dato alla luce il suo sesto figlio, fu portata contro il suo volere in una stanza dell’Ospedale di Saskatoon per impedirle di rimanere di nuovo incinta.
Devastante è poi la storia di Mercredi Morningstar, originaria di Alberta. In seguito a un’infanzia di abusi sessuali in famiglia, rimase incinta a 13 anni. Si trasferì da un’amica e, a causa di alcune perdite a metà gestazione, si recò in ospedale per dei controlli. Lì venne sedata e, al suo risveglio, le fu detto soltanto che le possibilità di una futura gravidanza sarebbero state poche. Il suo ovaio sinistro e la tuba furono rimossi senza che lei ne avesse la minima idea.
Le ragioni ataviche
Qual è il motivo profondo che dà il via alla violenza riproduttiva, e che fa sì che rimanga diffusa per così tanto tempo? Cerca di dare una spiegazione Karen Stote. Racconta come agli operatori sanitari venisse detto di incoraggiare la sterilizzazione e l’aborto forzati. Pratiche per la “pianificazione familiare”. Veniva concepito e descritto come aiuto alle comunità indigene povere, un modo per controllare le nascite.
Di fatto furono messe in atto, avallate delle leggi dell’epoca, misure discriminatorie e profondamente destabilizzanti ai danni di donne indigene. Atti di emarginazione e di razzismo. Gli Apache videro le loro famiglie diminuire da una media di quattro figli a una di 1,78, fra il 1970 e il 1980. In Canada, il tasso di natalità degli aborigeni passò da 47 bambini ogni mille persone negli anni ’60, a 28 nel 1980.
Cosa è cambiato
Per la violenza riproduttiva oggi sono in atto diversi processi. Viene chiesta una riforma sanitaria, e che le donne che hanno subito questa barbarie vengano quantomeno risarcite economicamente. Nessuna somma potrà cancellare quello che è stato, ridare la serenità rubata a chi non l’ha più, ma si tratterebbe di un segnale di svolta, di cambiamento sociale profondo. Si tratta di tutelare le bambine di oggi e le donne di domani.
Si tratta di non perpetrare più pratiche che segnano la mente e il corpo, che condizionano le relazioni sentimentali. Non soltanto al livello psicologico, ma anche fisico. La menopausa precoce è solo una delle conseguenze, per non parlare di forme di depressione che – nei casi più gravi – sfociano nel tentato suicidio.
A oggi il problema è ancora presente. Si tratta di pressioni psicologiche nei confronti di donne stanche dopo aver partorito, ma non solo. Procedure che dovrebbero essere scelte in piena libertà, senza coercizione. Perché a essere lesi sono i diritti umani, inviolabili (almeno sulla Carta).